venerdì 21 novembre 2008

La crisi dello Stato Sociale III. Lo smantellamento


A metà del ‘900 si dibatteva se il Welfare State fosse un'entità beffarda (perchè comunque manteneva un sistema capitalistico basato sullo sfruttamento dei lavoratori ma levigava gli attriti con l'offerta di servizi essenziali gratuiti) o una conquista tironfale per la classe operaia. Una cosa era sicura però: la sua natura irreversibile; "a meno che non si voglia eliminare i sindacati, destrutturare i partiti ed abrogare la democrazia" (Claus Offe).
Il Presidente americano repubblicano Richard Nixon nel 1971 dichiarò che “oggi come oggi nessuno non si direbbe keynesiano”.
Nessuno avrebbe pensato che dai primi anni '80 il suo smantellamento sarebbe stata una realtà.
Nessuno nel 2008, per quanto schierato a sinistra, potrebbe sottoscrivere le parole di Nixon.

Un passaggio chiave per analizzare le dinamiche regressive del modello di Stato Sociale sta nelle diverse sollecitazioni che stava subendo l’economia mondiale nella metà degli anni ’70: balzo tecnologico, alto potere contrattuale del lavoro e spinte inflazionistiche.
Sorgevano vari problemi inerenti alla sostenibilità del sistema:
  • Il poderoso avanzamento tecnologico in campo medico aveva di fatto allungato le aspettative di vita fino a dei livelli inattesi dai legislatori dei decenni precedenti.
  • Le folate inflazionistiche premevano sulla sostenibilità del debito pubblico in quanto si sollevava il problema per lo Stato di emettere titoli del debito capaci di prevalere sull’aumento del livello dei prezzi.
  • Sul finire del decennio i programmi liberisti (che condannano le eccessive ingerenze dello Stato nell’economia e “sollevano” i cittadini da molto del loro peso fiscale) sembravano per le istituzioni i più adatti a fronteggiare la crisi del modello industriale-fordista e la terziarizzazione del sistema.
  • Una spiegazione più ottimistica verteva sul fatto che ad un aumento delle risorse sistemiche e dei redditi individuali, corrispondeva anche un numero limitato di eventi negativi, ai quali la spesa sociale doveva far fronte (tradotto: se le persone pagano meno tasse sono meno esposti al rischio di povertà).

Il Welfare State a fronte di tutte queste variabili che si stavano accavallando, dovette essere ripensato e alleggerito. Questa idea ha trovato col passare degli anni spunti attuativi basati su di un contenimento dei costi della spesa pubblica, derivato da un abbassamento dell’imposizione fiscale, sulla riduzione dei tempi di permanenza nelle condizioni di bisogno, sulla restrizione delle aree di copertura di rischi.
Ma non si tratta solo di una trasformazione tecnica: la soppressione di vari istituti di assicurazione sociale è stata accompagnata da una generica disaffezione per la cosa pubblica tale da evitare particolari attriti nei diversi scenari della comunità.

Per chiarire il concetto mi preme ricordare che le macrodinamiche economiche hanno sempre una base materiale. In altre parole: è facile spiegare il declino del Welfare State ponendo il focus sul cambiamento ideologico e sul successo della dottrina monetarista nei gangli decisionali delle istituzioni, nella realtà però le ragioni che stanno alle fondamenta di questi passaggi sono solo il frutto della nuova divisione del lavoro derivata dal processo di automazione della produzione industriale.

L’affermarsi del paradigma della flessibilità in seguito alla rivoluzione tecnologica ha spezzato l’intesa interclassista ed intergenerazionale che era stata il grande volano dello sviluppo dello Stato Sociale. In tutto il “periodo fordista” europeo ed americano il welfare creò un valido esercito industriale di riserva, garantendo anche alle classi più disagiate una continuità di formazione pronta ad essere fruita dalle imprese nelle quasi perpetue fasi espansive della domanda; grazie a questo “servizio pubblico” le stesse imprese pagavano volentieri l’erario. Negli ultimi due decenni, a causa della maggiore concorrenza fra privati e i bassi livelli di crescita aggregata (PIL), la manodopera eccedente rischia di non essere più impiegabile non tanto perché poco qualificata, ma per l’assenza di domanda.
Ormai i profitti delle imprese derivano da investimenti strutturali che non comprendono l’assunzione di un maggior numero di dipendenti, anzi gli esuberi sono sinonimo di vivacità imprenditoriale e vengono regolarmente remunerati dalla Borsa. Contemporaneamente la libera circolazione dei capitali permette lo sfruttamento di lavoratori in paesi asiatici, latinoamericani ed africani dove lavoro significa sopravvivenza, dove non è necessario stimolare il consumo o inventarsi nuovi stimoli per la manodopera.

Il risultato di tutto questo è che adesso l’esercito industriale di riserva ha dinamiche mondiali mentre l’assistenza sociale conserva ancora le sue peculiarità nazionalistiche: nella percezione dei grandi gruppi industriali finisce la visione costruttiva del Welfare State.

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